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l'ordine naturale; è pur giuocoforza concludere ancora che la guerra è una necessità della nostra sociale costituzione. Certo che fra le guerre le quali hanno per iscopo la conquista e l'oppressione, e le battaglie combattutesi a Maratona e a S. Martino, c'è di mezzo tutta la scala che dal supremo delitto conduce fino alla suprema giustizia; ma appunto perchè è possibile una battaglia di Maratona e di S. Martino, così la necessità della guerra, date certe estreme contingenze, è ineluttabile. - E torna sempre vera ed opportunissima quella profonda sentenza di Livio là dove dice che justum bellum quibus est necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis relinquitur spes (1).

La storia ci fornisce preziose notizie intorno al carattere che la guerra aveva negli antichi tempi, ed alle radicali mutazioni che di volta in volta subì per essere quale è oggidì universalmente considerata. Rintracciamole brevemente

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II.

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Nel mondo antico, e per molto tempo più innanzi ancora, allorquando quei principii di giustizia e di amore che tutta informano questa nostra civiltà, non erano che il privilegio di qualche eletta intelligenza, e fra le masse prevalevano ancora le tendenze brutali e ferine delle età primitive, che facevano d'ogni straniero un nemico, e di ogni nemico un essere sul quale ciascuno aveva diritto di vita e di morte; ed anche allorquando nei tempi più splendidi della civiltà romana era dogma politico la inesorabile sentenza adversus hostem æterna auctoritas - che da sola dovrebbe bastare a non farci punto desiderare anche gli splendidi fasti di quella civiltà; allora, si dice, non si tosto la guerra era da un popolo contro l'altro dichiarata, che tutti e ciascuno dei cittadini di quelle due politiche associazioni si consideravano reciprocamente fra loro

(1) Lib. IX. init.

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come nemici. Poichè la persona del cittadino era in allora sif fattamente compenetrata in quella dello Stato, formava con questo un tutto così indivisibile, che era impossibile staccarnela e rompere quel vincolo di solidarietà che così potentemente legava il cittadino al corpo stesso della politica associazione. Allora bastava che quest' ultima fosse riputata colpevole di qualche offesa alle leggi della giustizia internazionale, perchè tutti gli atti di guerra che si credevano leciti e si consumavano contro di essa, divenissero tali e del pari si consumassero, per un principio di assurda estensione, contro tutti i suoi cittadini e contro le proprietà loro, siccome quelle che naturalmente portavano impresso il carattere nemico. Note sono queste sentenze del diritto pubblico romano: quæ ex hostibus capiuntur, jure gentium, statim nostra fiunt (1); aforisma che Tito Livio confermava con queste parole: esse quædam belli jura quæ facere ita pati sit fas, sata exuri, dirui tecta, prædas hominum, pecorumque agi (2); e Gajo ripeteva, esplicandolo a questo modo: marime sua esse credebant quae ex hostibus cæpissent, unde in centumviralibus judiciis hasta preponitur (3). Tali erano i diritti della guerra riconosciuti da quelle leggi romane per cui non erano inviolabili nemmeno i sepolcri del nemico; sepulcra hostium nobis religiosa non sunt (4).

Eppure queste enormezze, che stranamente da alcuni pubblicisti si chiamano ancora rigorose conseguenze dei principii del diritto, erano allora universalmente accettate e tenute per buone; e non fu che dopo una sanguinosa esperienza di molti secoli che si riuscì a capire, come la persona del pacifico cittadino dovesse tenersi affatto distinta da quella dello Stato e

(1) D. L. 3. §. 7. de acq. rer. dom.

(2) L. XXI. C. 30.

(3) Comment. IV. 16.

(4) D. L. 4. de sepulcro violato.

di coloro che direttamente prendono parte alla guerra facendosene attivi stromenti.

Nessuna meraviglia per altro ci deve destare questo sistema dei tempi passati. Allora i progressi della civiltà non avevano peranco insegnato come ogni istituzione umana per essere buona debba essere idonea ad agevolare ed a compiere il perfezionamento della creatura di Dio, la quale soltanto è fine a sè stessa; e che lo Stato null' altra missione ha da compiere se non quella di assicurare a ciascun suo cittadino il libero, ordinato esplicamento della personale autonomia; allora si credeva e si professava che fine d'ogni cosa fosse lo Stato, che tutto si dovesse sagrificare alla sua salute, e qualunque cosa fosse scusabile, anzi buona, la quale avesse mirato al suo preteso giovamento; quand' anche per ottenerlo si avessero dovuto calpestare i principii più sacri della giustizia. Lo Stato era così onnipotente allora e la persona del cittadino così povera cosa, che ben poteva questa essere immolata alla salute pubblica, compenetrata intieramente come era nella unità collettiva dello Stato. Fatta impertanto della personalità giuridica dell'uomo una derivazione del potere sociale si corse difilato a dedurne, che allorquando quest' ultimo intraprendeva una guerra, tutti i cittadini dovevano del pari direttamente parteciparvi, perchè le parti debbono seguire le sorti del tutto. Di questo modo da un errore filosofico scaturì un errore di diritto sociale, poichè il sistema di assorbimento da parte dello Stato conduce sempre inevitabilmente alla soppressione della personalità umana.

Più innanzi, allorquando fu mandato in frantumi l'immenso colosso dell'impero romano che, simile alla celebrata statua biblica, aveva la testa d'oro e i piedi di creta, e le torme barbariche, con assidua vicenda, come onde sbattute dalla tempesta, si andarono cacciando dall' uno all'altro paese sovrapponendosi alle popolazioni vinte, il principio dell' individualismo, che prevaleva fra le genti nordiche, si andò mano mano estendendo e radicando anche fra i popoli conquistati, per quanto

almeno poteva essere comportato dalla diversità della rispettiva loro posizione politica; e, dal principio dell' individualismo, una conseguenza tutt' affatto opposta venne derivata per riguardo alla partecipazione dei singoli cittadini agli affari esterni dello Stato. E siccome a quegli enormi secolari travasamenti di un popolo sull' altro doveva per necessità tener dietro una pari rilassatezza negli ordini civili, così tutti i principii di governo e di autorità vennero violentemente spostati e affievoliti.

Alla concomitanza di queste due cause, principalmente, va attribuito l'organismo della società feudale, che lentamente andò sostituendosi al mondo romano, e che tenne per tanti secoli dominio in Europa. I poteri sovrani per tale modo frazionati e suddivisi si indebolirono sempre più, ed il principe fu costretto a condividere coi vassalli non soltanto il diritto di amministrare la giustizia, ma pur quello di fare la guerra. E se prima le armi furono di assoluta ed esclusiva competenza dello Stato, in questi tempi invece chiunque aveva un diritto da difendere o da rivendicare, od una vendetta da compiere si faceva giustizia di per sè. Così le guerre dei privati tra di loro, o dei baroni coi privati, o dei baroni tra di loro, miseramente tramutarono la società in un sanguinoso agone, in cui ogni contesa non poteva essere definita se non colle rapine e colle devastazioni. Le quali ebbero nei primi secoli ristretto il loro campo di azione al continente, perchè qui si erano in principal modo compiute quelle grandi crisi sociali e politiche che avevano trascinato a rovina la civiltà romana, e da cui la mano invisibile della Provvidenza andava traendo fuori una nuova civiltà. Le grandi invasioni barbariche diffatti vennero quasi tutte dal continente; le forze navali erano ben poca cosa presso quei popoli del settentrione, e poco più nei paesi invasi. Dileguata quasi perfino la memoria di ogni grandezza romana, anche le grandi flotte scomparvero.

Nè in tempi di si profondi turbamenti in cui colla virtù civile e politica erasi spento quasi del tutto ogni industria ed

ogni commercio, poteva mai arridere a taluno il pensiero della speculazione mercantile sui mari, mentre questa era per intiero rovinata sul continente; nè quello spaventevole dissolvimento sociale che quasi pareva minacciasse di ricacciare l'umanità alla vita delle selve, poteva mai permettere che si pensasse ad armamenti marittimi, di cui in allora non si sentiva il bisogno, ed a procurarsi i quali appena bastano le ingenti risorse degli Stati odierni. E ciò che non potevasi fare dai conquistatori, a cui venivano meno le bisogna ed i mezzi, tanto meno sarebbesi potuto tentare dai privati, i quali per parecchi secoli avranno pur dovuto essere storditi da quei grandi sconvolgimenti d'ogni ordine di cose. Tant' è adunque, che anche dopo la rovina dell'impero occidentale, il mare Mediterraneo restò tranquillo e libero dai pirati dal quarto sino al settimo secolo dell'êra nostra, perchè tutte quelle genti abborrivano i commerci e la navigazione, come quelli che richiedevano arti e cognizioni più che esse non avevano. Le rapine e le devastazioni allora avevano scielto per campo di loro azione il continente.

Ma come gli animi cominciarono a riaversi dallo smagamento di quelle violente convulsioni sociali ed a pensare alle arti della pace, per quanto era comportabile colle condizioni anormali di quei tempi, anche il commercio marittimo ebbe qualche incremento e qualche sviluppo. Però, fatta assai pericolosa la navigazione dei mari per la sfrenata pirateria che vi esercitavano i Normanni a tramontana e i Saraceni al sud, i commercianti che pur non avevano da contrapporre a quelle armi private flotte ben disciplinate, perchè, come già dissi, ne mancavano gli stessi Stati, pensarono che non altrimenti avrebbero potuto convenientemente provvedere alla sicurezza dei loro commerci se non organizzando essi stessi una forza militare qualunque. Allora ogni naviglio mercantile si armò in guerra; furono concertate le spedizioni di conserva, ed i mari tramutati in un campo chiuso, in cui i privati mercanti avevano ingaggiata una lotta a morte coi pirati. L'ardire poi dei mercanti, ajutato dai felici eventi, non si limitò ad una

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